Sociale
Una vita sana è come un’opera d’arte
Ogni forma di vita, anche la più sana, giunge al termine. Tuttavia l’argomento del fine vita è uno dei maggiori tabù, inteso nella doppia accezione freudiana, di “sacro” e di “proibito-pericoloso”. E’ tema difficile dove coesistono aspetti complessi: umani, scientifici, etici, giuridici, religiosi, filosofici e perfino politici.
I casi Welby ed Englaro, infatti, hanno comportato anche un accesso dibattito politico. Si parlò allora di eutanasia, testamento biologico, accanimento terapeutico, etc. Argomenti ancora aperti e purtroppo spesso affrontati con poca chiarezza non favoriscono una comprensione delle cose che permetta ad ognuno di elaborare una propria opinione, in piena libertà di coscienza.
Se facessimo un excursus storico – antropologico scopriremmo che in quasi tutte le culture e civiltà la morte non è considerata la fine di tutto. Le religioni prevedono riti sacri che facilitino il “trapasso” e l’elaborazione del lutto. Morte, quindi, non come tragedia definitiva ma come uscita di scena da un mondo e “passaggio” in un altro, inizio di una nuova vita in un’altra dimensione. A questo filone di pensiero si rifanno i concetti di reincarnazione, resurrezione e immortalità dell’anima.
Pascal asseriva: “La morte è più facile da sopportare senza che vi si pensi”, e il pensiero “della nostra condizione debole e mortale è così miserabile che niente ci può consolare quando ci pensiamo fino in fondo”. Allora pur di non pensarci siamo disposti a tutto: divertimenti, attività frenetiche, lavoro, perfino le guerre.
Nelle coscienze la morte, quindi, rappresenta un “rimosso collettivo ”. Ma se non ci si pensa, inevitabilmente, il momento della morte spaventa e coglie impreparati.
Nell’ultimo quarto di secolo in occidente abbiamo assistito ad un cambio di atteggiamento culturale nei confronti della morte. E’ un evento sempre meno accettato che ha perso il senso di naturale conclusione dell’esistenza, anche se giunge in età avanzata. Ai bambini non viene permessa la vista di un congiunto morto, cosa che non accadeva anni addietro.
Sembra che la morte sia diventato un “accidente – incidente” conseguenza di una, per così dire, “cattiva gestione” della malattia, o perfino malasanità. E’ ipotizzabile che ciò sia conseguenza anche delle grandi scoperte medico – scientifiche degli ultimi anni. La tecnologia e le tecniche della moderna rianimazione hanno forse indotto, non solo negli addetti ai lavori, la sensazione che tutte le malattie possono essere debellate e la morte non debba mai giungere.
Inoltre l’allungamento della vita media ha prodotto la percezione collettiva di un tempo sempre più dilatato, che procrastina sine die la giovinezza, rifiutandone gli inevitabili mutamenti del corpo.
Così la società ha cominciato a identificare una vita sana con il mito dell’eterna giovinezza, di un corpo perfetto che insegue un canone di bellezza calibrato sulla più banale uniformità (tutti belli, tutti allo stesso modo). Alla domanda di un corpo sempre efficiente e giovane la chirurgia estetica e la farmacologia hanno dato risposte solerti e hanno incoraggiato una ossessione per un corpo “parcellizzato” e “fotocopia” di modelli trasmessi dai media. Una cura di sé “malata” e infelice perché fine a se stessa.
Una sana cura di sé, invece, costa fatica e coinvolge mente, corpo e anima alla ricerca di sempre nuovi e non scontati equilibri.
Equilibri prodotti anche dall’armonia tra sé e l’esterno (collettività, ambiente): la salute esiste se esistono anche sane condizioni esterne che tutti contribuiscono a creare.
Cura della propria vita, del corpo individuale e collettivo come mezzo di salute, di equilibrio, di identità e, in ultima analisi, di felicità.
“La vita, se è vita umana – la vita di un essere dotato di volontà e libertà di scelta – non può non essere un’opera d’arte”, scrive Zygmunt Bauman ne “L’arte della vita”. Una riflessione laica, pertanto, ci induce a dire che quando si è vissuti così, e l’opera è portata a compimento, non si può essere timorosi o tristi, perché l’arte non muore, dura in eterno.
Dott.ssa Franca Grosso – Sociologa