Approfondimenti
I desideri
Desiderare è forse uno degli atti umani più naturali, quasi istintivi. E per alcuni tipi di desideri è proprio l’istinto di conservazione a guidarli. Sono in realtà “bisogni” e la loro soddisfazione è necessaria alla stessa sopravvivenza: mangiare, respirare, coprirsi, dormire, sentirsi bene, al sicuro, realizzati.
Lo psicologo statunitense Abraham Maslow li struttura nella famosa piramide (1954). Dal primo livello, quello fisiologico, si passa gradualmente ai livelli superiori, fino all’apice dove presumibilmente risiede la felicità, dando per inteso che la soddisfazione dei livelli precedenti rende possibile l’ acceso ai successivi.
(fonte wikipedia)
La soddisfazione di questi bisogni – desideri fondamentali non è affatto scontata. Si potrebbe disegnare una mappa geografica che localizza dove questi bisogni sono perlopiù garantiti (l’Occidente, il primo mondo) e dove no (i Paesi terzi o in via di sviluppo). La crisi, negli ultimi anni, ha sfumato un po’ questi contorni geografici amplificando la forbice tra chi possiede (anche esageratamente) e chi è prossimo alla povertà.
Ma soddisfare i desideri e raggiungere la felicità sembra essere una corsa eternamente incompiuta anche nel primo mondo. Perché? La dimensione individuale fotografata da Maslow nel 1954 nella piramide è stata fortemente influenzata dal fenomeno sociale del consumismo che abita le “società del benessere”. Di conseguenza si è sostanzialmente riformulato anche lo scenario interiore (e le priorità) dell’individuo. Gli “ingredienti” della piramide sono andati via via modificandosi: hanno trasformato i desideri (di oggetti e merci) in bisogni, sostituendo quelli essenziali con quelli futili, quelli della sicurezza con quelli dell’acquisto; l’appartenenza diviene appartenenza ad una classe di consumo (apparire, esibire) per arrivare all’apice della piramide dove l’autorealizzazione avviene con il “lusso”.
Il consumo così è diventato sinonimo di benessere – ricchezza – felicità. Cosa è accaduto? All’inizio è stato il boom economico, esploso a partire dagli anni ’60, indotto dapprima dalla ricostruzione post bellica; poi l’industria e il mercato hanno scatenato la loro potenza di fuoco grazie anche a marketing e pubblicità, consolidando l’ ideologia neoliberista ancora imperante. Su YouTube il docufilm the corporations è illuminate ed esaustivo al riguardo.
L’argomento è stato oggetto di studio di molti pensatori: tra i più noti H. Marcuse, G.P. Fabris, Z. Bauman.
- Marcuse parla di “uomo a una dimensione” (1964), cioè la dimensione del consumatore. G.P. Fabris tenta una mediazione con il concetto di prosumer (consumatore che collabora con il produttore). Bauman nei suoi scritti sulla società liquida, dipinge una società maestra nel suscitare desideri, perpetuando in eterno l’attesa della felicità rinviandola all’acquisto successivo, in un vortice che tiene fortemente ancorati ai suoi riti e ai suoi significati.
Parole d’ordine: quantità al posto di qualità; rapida obsolescenza dei prodotti (ad es. tecnologia); libertà assoluta del Mercato; Borsa, PIL, Crescita, come totem; oggetti (auto, abiti, case,) come status simbol.
Il sistema si è spinto oltre incoraggiando la pura esibizione degli oggetti sganciata dal possesso: noleggio di abiti o borse firmate, pay per view, perfino cani in affitto, come ricorda Z. Bauman riportando i casi di aziende “specializzate in servizi che offrono i tradizionali piaceri della proprietà senza i suoi problemi”. Il messaggio lanciato è chiaro: “la via che porta alla felicità passa per i negozi, e quanto più sono esclusivi, tanto maggiore è la felicità cui si arriva”. Anche il desiderio sessuale vi si sublima, o peggio, diventa consumo di “relazioni tascabili”, allentate, vissute in superficie: amore liquido in società liquida.
Effetti collaterali: comportamenti compulsivi (shopping, relazioni fugaci), dipendenza (l’ultimo modello, la prossima liaison), lo spreco, lo scarto, i rifiuti, in una accezione non solo materiale ma anche umana, come ha ricordato anche Papa Francesco.
Il desiderio infinito diviene corsa esasperata che può approdare al vizio che è appunto una ricerca compulsiva. Quasi tutte le religioni mettono in guardia da tale pericolo esortando alla morigeratezza, all’equilibrio. La religione cristiana ne fa un elenco nei sette vizi capitali, quelli cioè che con più facilità conducono a perdersi in questa folle corsa.
Questi desideri identificano la felicità con la sfera materiale e rigorosamente individuale: il proprio interesse contrapposto a quello altrui (avarizia, invidia, superbia). E’ inevitabile? E’ illogico pensare diversamente? No.
Le vite di Ghandi, Martin Luter King, Mandela, o Francesco d’Assisi, ne sono la dimostrazione. I loro desideri erano di pura natura ideale: pace, giustizia, amore, fratellanza, altruismo. Scrive Bauman “Il desiderio di felicità libera un’energia che può assumere la forma di forza centripeta o centrifuga” a seconda se “il soggetto che desidera felicità si concentra sul suo benessere o sul benessere altrui”. In quest’ultimo caso sono sentimenti che “possono prosperare soltanto in un contesto di rapporti umani intensi ed intimi”. Sempre Bauman riporta un aneddoto riferito da A. Maslow: golosi di fragole lui e il figlio, quest’ultimo le mangiava avidamente guardando con nostalgia il piatto ancora pieno del padre; allora questi dopo averle date al figlio ricordava che “quelle fragole mi piacevano ancora di più quando le mangiava lui”.
I desideri quando travalicano la dimensione egoistica e diventano di natura ideale, etica, universale sono icone del “bene comune” universale. Per questo motivo hanno un potere benefico straordinario, un effetto moltiplicatore e trascinante.
Sembra trascorsa un’era geologica, ma è solo qualche decennio fa, nei fabulous ‘60-’70, proprio mentre nasceva il consumismo, che si affermavano anche concetti – anticorpi frutto di straorinari movimenti spontanei nati in tutto il mondo. La contestazione giovanile, i movimenti studenteschi e di fabbrica, il pacifismo, i movimenti ambientalisti hanno prodotto slogan ed esempi da cui sono nati l’ecologismo, i diritti civili, l’anti-apartheid, la rivoluzione sessuale, le lotte per la parità di diritti di genere, la “fantasia al potere”. Impensabile oggi parlare di desiderio – sesso – amore – matrimonio prescindendo dal patrimonio culturale prodotto in quegli anni e a cui, nonostante il riflusso, ancora attingiamo.
In quel momento magico i desideri individuali si intrecciavano a quelli collettivi, e nella gerarchie dei valori dichiarati l’idealità prevaleva sui personalismi. Una controcultura faceva breccia nella cultura dominante e di massa introducendo un nuovo lessico e nuovi costumi. La beat generation dilagò in tutto il mondo contagiando con straordinaria fecondità la musica, la filosofia, le arti visive e cinematografiche, la letteratura, la poesia; il fenomeno fortemente anticonformistico degli hippy divenne uno stile mai tramontato nella moda e nei costumi. Su tutto aleggiava in una straordinaria atmosfera di gioia e profondo rinnovamento.
Sempre in quella fase storica le working class lottavano per affermare e consolidare diritti (salute, istruzione, sicurezza sul lavoro) che hanno rappresentato i pilastri dello Stato “amico”. Ed è il Welfare State, infatti, l’identikit che fotografa il vero grado di civiltà delle democrazie avanzate. Lotta per i diritti non per il consumo di merci come, invece, avviene oggi nei saccheggi di negozi nelle metropoli per accaparrarsi prodotti soprattutto di tecnologia.
Quando Elisabetta Ambrosi nel libro “Guerriere” dedica un passaggio alla generazione di sua madre e con una vena di bonaria invidia sostiene che “per loro è stato tutto più semplice e garantito”, dimentica che quelle donne per quei diritti hanno lottato, e hanno messo le basi di un futuro migliore non solo per quella generazione.
Quel futuro oggi è sotto scacco e la domanda è: potrebbe essere anche frutto dell’arrendevolezza di generazioni vissute (e soggiogate) con le lusinghe del consumismo, dell’individualismo, del benessere fine a sé stesso? La risposta non c’è. Il mondo oggi è certo più complesso di qualche decennio fa; la globalizzazione ha esasperato le contraddizioni, ha reso più difficile interpretare il mondo, ed anche lo sforzo e il desiderio di cambiare le cose. Ma se è vero che solo l’1% della popolazione mondiale detiene tutta la ricchezza (e il potere), come hanno ben ricordato i ragazzi di Zuccotti Park, è anche vero che c’è un bel 99% che potrebbe far di più e meglio, guidati da desideri grandi, etici e globali, a vantaggio del pianeta e di tutti i suoi abitanti.
Franca Grosso – Direttore scientifico Informa, Sociologa