Corpometraggi
Alla ricerca della terapeuticità perduta.
La malattia (non la salute) è il secondo business mondiale, dopo gli armamenti. Non c’è su questo niente altro da aggiungere. Tutte le conseguenti derive sono inevitabili ed immaginabili. Sono derive “di sistema”, non ha senso parlare di dottori bravi e dottori cattivi.
Ogni cosa ormai è un indotto della Malattia. Il Mercato, che ha bisogno sempre di nuove aree, di nuove malattie, sempre più ci “medicalizza la vita”. C’è una enciclopedia medica in ogni casa; bisogna leggere in chiave medica qualunque cosa accada. L’adolescente svogliato a scuola, o immalinconito da un amore non corrisposto, diventa una domanda di mercato cui il medico può prontamente dare risposta (farmaci). Il “chiletto di troppo” non è più la nostra struttura fisica (è così “di costituzione”, si diceva una volta), il “nostro” corpo, bensì un oggetto professionale del medico. Il nostro ritmo personale non è più la nostra “natura”, un nucleo della soggettività.
Il medico può farci più belli, più intelligenti, meno stanchi e meno stressati, biondi e con gli occhi azzurri. C’è il farmaco che allunga la vita e quello che rende più felici, senza stare a perdere tanto tempo a vivere una vita sana, buona, bella, “costruire”, amare, viaggiare…; c’è un farmaco per la timidezza, uno per dormire e uno per svegliarsi, uno per far crescere i capelli e uno per fare scomparire le rughe, uno per modellare i muscoli, uno perché il bambino sta fermo e uno perché si muove, è troppo calmo o troppo nervoso, dorme troppo dorme poco, mangia poco, piange troppo…
Non c’è più nulla che accada che sia semplicemente la vita, una soggettiva lentezza qualche volta, qualche volta non essere tanto forti, avere qualche paura, magari invecchiare, un giorno chissà?, morire…
Non c’è più nulla che alla vita, alla natura appartenga. La clinica ha preso ogni cosa. Il medico (la Casa Farmaceutica) ci risponde su tutto, anche alle domande che andrebbero poste ad altri, persino alle domande che non andrebbero poste.
Molto spesso non è questione di lesioni o di alterazioni funzionali, di pezzi guasti o pezzi mancanti, di chimica, di organi e di cellule: è semplicemente che ci vorrebbe un’altra vita…
Ci vorrebbe un’altra vita, con più tempo umano, con le funzioni umane non surrogate sempre professionalmente (non trasformate sempre in merce), e non mediate sempre da qualcosa (il denaro, la tecnologia…) che ne perverta la “naturalità” dei codici, dei tempi, dei modi.
Anche questa è la malattia del mondo: un modello di sviluppo, un’organizzazione del reale, una forma della vita che tolgono all’uomo il tempo, il corpo, la parola.
Anche questa è la nostra malattia. Come la si può curare, se non riflettendo sul fatto che forse ci vorrebbe pure un’altra vita, non solo un altro farmaco?
Affrontare professionalmente la Malattia senza inquadrarla nel “Da Dove Ne Viene”, nel tempo sociale che l’ha prodotta, è una forma di analfabetismo secondario, un brancolare nel buio epistemologico, in un vuoto vertiginoso e disperato.
Ed invece la relazione clinica, piuttosto che contemplare criticamente il mondo ai fini di un inquadramento diagnostico non banale, si limita a ripeterlo (il mondo) acriticamente.
I termini della relazione medico – paziente, trasformandosi ad immagine e somiglianza del Mondo, hanno smarrito i loro potenziali terapeutici, perché una Cura che ripete il Mondo non ne potrà mai guarire i mali.
Catello Parmentola – Psicoterapeuta.