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La ricerca del Censis sugli italiani a tavola: il food social gap.
Il Censis ha appena pubblicato un rapporto di ricerca sui comportamenti alimentari degli Italiani. I dati sono stati raccolti nei mesi di settembre e ottobre 2016. Quindi è una fotografia attualissima della situazione. Scopriamo così che nell’ultimo anno 16,6 milioni di italiani hanno ridotto il consumo di carne; 10,6 milioni hanno ridotto quello di pesce; 3,6 milioni quello di frutta e 3,5 milioni quello di verdura.
Ciò che inquieta è che tali cambiamenti nell’alimentazione sembrano non essere frutto di una scelta bensì della crisi che ha accentuato ulteriormente le diseguaglianze sociali. Nel rapporto si legge che il fenomeno della riduzione di carne ha interessato “ il 45,8 % delle famiglie a basso reddito contro il 32% di quelle benestanti. Per il pesce, il 35,8% delle meno abbienti e il 13,6% delle più ricche. Per la verdura, riducono il consumo il 15,9% delle famiglie a basso reddito e il 4,4% delle benestanti. Per la frutta, il 16,3 % delle meno abbienti e solo il 2,6% delle più ricche.”
Il che ci fa dedurre che la crisi è arrivata anche sulle tavole degli Italiani.
Infatti il rapporto parla di “food social gap” per indicare questa ulteriore diseguaglianza che la crisi ha determinato. E infatti si legge “Le quote di famiglie meno abbienti che hanno ridotto i consumi di carne, pesce, frutta e verdura sono sistematicamente superiori alle quote di famiglie benestanti che hanno ridotto il consumo di tali cibi”. In fin dei conti “si mangia quello che ci si può permettere, con un vincolo significativo alla reale libertà di scelta a tavola”.
Da un istituto di ricerca e statistica di fenomeni sociali non poteva mancare anche una analisi su “come è cambiata la società italiana e come sta cambiando oggi”. Partendo dall’età del miracolo economico degli anni ’60 fino agli anni ’90 “vince la logica incrementale, che vede un graduale accesso alla sicurezza alimentare, nella doppia accezione della certezza di accesso a quantità adeguate di cibo (food security) e dell’accesso a cibo sicuro dal punto di vista igienico – sanitario (food safety). E’ il tempo della conquista di una dieta quotidiana adeguata, salutare, con al centro pasta e carne. Anche simbolicamente, questa alimentazione segna l’avvenuta conquista del benessere, con la fine definitiva della scarsità alimentare e delle malattie connesse (dalla pellagra allo scorbuto), una spinta in alto di speranza di vita, longevità e anche prestanza fisica degli italiani”.
Come negare che questo è quanto avvenuto. Ma sembra si dia per scontato (che però non lo è) che le scelte alimentari degli italiani prima della crisi fossero certamente migliori, adeguate e corrette, e che non vi fossero sbilanciamenti e sprechi.
Il rapporto inoltre definisce un “falso mito” la nocività della carne rossa. E infatti si legge “mangiare carne non è contro la buona nutrizione”. E c’è solo un accenno alle “patologie del benessere, aumentate negli ultimi venticinque anni (sovrappeso e obesità +26,3%, ipertensione +92,9%, diabete + 180,3%)”. Secondo gli estensori del rapporto tali patologie “spesso sono state erroneamente associate al consumo di carne rossa, il cui consumo negli stessi anni è, invece, diminuito (-29,4%)”. Ed anche sulla cancerogenicità si ritiene che sia solo “probabilità e non certezza”. Si potrebbe obiettare che secondo un principio di precauzione sarebbe comunque bene non sottovalutare tale probabilità.
Il food social gap effetto della crisi è una realtà. Ma forse più che una difesa d’ufficio dei modelli alimentari pre-crisi (e della carne rossa) andrebbe sottolineata la preoccupante spinta del mercato verso consumi più rischiosi e insani (preparati industriali a basso costo) di cui c’è solo un vago cenno.
Certo forse non era la sede per approfondire tali argomenti, ma una riflessione specifica sarebbe opportuna su come in questi anni gli effetti deleteri sulla salute siano stati anche frutto di una dieta non corretta e sbilanciata, spinta da modelli di consumo dettati più dal marketing, dall’industria e dalla grande distribuzione, più che da scelte di salute. Per non dire di tutti i problemi connessi al mercato globalizzato: contraffazioni, allevamenti e coltivazioni quasi esclusivamente intensive, stoccaggio, trasporto, estromissione dei piccoli coltivatori ed allevatori dal mercato, importazioni, etichettatura, filiera lunga poco controllabile, inquinamento, uso massiccio di concimi e diserbanti, e via così.