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Lavoro agile, Smart working, Tecnostress. Smart è sempre bello?
Arriva lo smart working. Del suo “papà”, il telelavoro, pochi se ne sono accorti pur essendo regolamentato da già diversi anni, risale infatti a oltre dieci anni fa la prima norma sul lavoro a distanza. Ma nello smart working siamo già profondamente immersi, forse senza renderci veramente conto di tutte le implicazioni. Una normativa che lo regolamenti probabilmente arriverà a fine anno con la Legge di stabilità. Il Disegno di legge che per ora riguarda il lavoro autonomo, ha come finalità (art. 1 del Titolo II) promuovere “le forme flessibili del lavoro agile allo scopo di incrementare la produttività del lavoro e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Di cosa si parla? Del lavoro che viene fatto a distanza con mezzi tecnologici come il PC o lo smartphone. In effetti da quando internet è sul telefono portatile non è necessaria una postazione di lavoro vera e propria. Con lo smartphone anche una sala d’attesa dal dentista, un vagone ferroviario, o un bar sono luoghi e momenti per collegarsi. “Sempre connessi” è la rivoluzione che ci ha cambiato la vita. Da subito ci è sembrata una novità intrigante, bella, interessante. Ma è davvero così? Il vocabolario, la terminologia può cambiare il senso delle cose. La traduzione della parola smart ha diversi significati: bello, alla moda, brillante, ma anche rapido, astuto, furbo, insolente, ecc. E così i termini “agile” e “flessibile” utilizzati per enfatizzare il senso positivo, in realtà nascondono instabilità, precarietà, indefinitezza.
In verità delle insidie nascoste nel lavoro (e nella società) “agile e flessibile” il sociologo Luciano Gallino aveva già detto nel 2014. Egli conia la definizione “società 7X24” per definire il lavoro che gira 7 giorni su 7, 24 ore su 24 (“Vite rinviate, lo scandalo del lavoro precario” – Laterza) che si porta dietro un nuovo tipo di alienazione. Egli scrive “Il tempo di lavoro s’intreccia con gli altri tempi della vita sino a diventarne inseparabile”. La rivoluzione “tecnosmart/sempre connessi” ha prodotto e favorito un lavoro senza limiti di tempo e di spazio, andando oltre ogni più rosea previsione del managment più arrogante, e quasi all’insaputa dell’individuo.
Certo non si può negare che è molto utile una connessione pronta per reperire un documento o una informazione, ma quando diventa una modalità ordinaria di lavoro si trasforma in schiavitù. E infatti sopraggiunge il tecnostress, cioè la sindrome che colpisce l’individuo che deve “gestire forme di conoscenze complesse e il flusso informativo offerti dalle nuove tecnologie (Regosa 2016)”. Come terapia/prevenzione viene proposto il digital detox cioè l’astensione dalla connessione. Qualche azienda ne fa perfino un must del marketing aziendale interno, come la Virgin che lancia il detox aziendale obbligatorio per due ora settimanali per i sui dipendenti. E quindi si va affermando “il diritto alla disconnessione” per regolamentare la “libertà” lavoratore negli orari non concordati (la normativa francese già lo prevede).
Insomma ha ragione Massimo Fini quando sostiene che la modernità non sono rose e fiori. Come darli torto quando citando il filosofo della scienza Paolo Rossi scrive: “La tecnologia mentre risolve un problema ne apre altri dieci ancora più irresolubili”.
A proposito: chi ama un punto di vista non scontato e non omologato non si lasci sfuggire la nuovissima uscita del libro di Massimo Fini “La modernità di un antimoderno”, Marsilio, nel quale con una presentazione di Salvatore Veca, sono raccolti i suoi scritti filosofici “La Ragione aveva torto?”, “Elogio della guerra”, “Il Denaro, sterco del demonio”, “Il vizio Oscuro dell’Occidente”, “Sudditi”, “Il Ribelle dalla A alla Z”.