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Niente di speciale
Incontrare Giuseppe è esperienza di devastante normalità. Come guardare il cortile di casa tua e scoprire un mondo nuovo. È facile, basta guardarlo da una prospettiva nuova, dalla carrozzella di un disabile. Che poi disabile chi, disabile cosa. Alla fine della chiacchierata scopri che al termine non sapevi dare il giusto significato.
Noi lo abbiamo fatto parlando con Giuseppe, giovane Presidente dell’Osservatorio sulla quiete, sulla sicurezza e sulla salute dei cittadini di Salerno. “Dici disabile e pensi ad una carrozzella. E non pensi a chi ha problemi nel vedere, nel sentire. Non pensi che disabile può essere anche l’anziano che si muove con difficoltà, non sai che la disabilità ti può sorprendere anche senza una malattia grave”.
La parola fa paura, lo capisci anche nelle “soluzioni” a volte così poco intelligenti che si vede benissimo che sono frettolose. E quasi mai vanno bene per tutti, quando addirittura non accentuano lo sgomento, il senso di frustrazione. “Roba ordinaria, che vedi tutti i giorni e non ci fai caso.“ Come le discesine dei marciapiedi, che ci sono ma spesso non sono funzionali,perché magari quelli della luce ci hanno messo un lampione vicino, o perché un automobilista strafottente ci ha parcheggiato. E non lo sa (si spera) che ha chiuso a chiave una cella. O ai posti auto con le strisce gialle, quelli lasciati liberi. Che quasi mai lasciano spazio per aprire completamente le portiere, per accostare la carrozzella.
La legge è rispettata (sulla carta) ma dalla maledetta gabbia il disabile non esce. E magari riflette (è quel che gli resta) su quanto poco basterebbe, e non si fa, per migliorare. “Magari fare un censimento delle discesine, e fare quei piccoli interventi per renderle fruibili.” Uno dice, se non puoi usare l’auto prendi l’autobus, ci sono quelli a norma. Ma poi scopri che l’autista non può lasciare il posto di guida, e personale per farti salire e scendere non ce n’è. E tu di nuovo lì, a sbattere la testa contro un muro.
“Una delle cose più tristi sai qual’è? Amare la tua città, la tua Salerno, sentirsi dire che è città europea, e sapere che non te la puoi godere. Che il suo magnifico centro storico, le sue Chiese, le puoi guardare solo in fotografia. Che il castello d’Arechi, che la domina e simboleggia, ti è negato, perché ai disabili non hanno pensato”. Giuseppe parla di cose normali. Così normali che sui social network, la cartina di tornasole del nostro tempo nevrotico, trovano meno spazio degli animali abbandonati, delle guerre combattute in un paese lontano, dei livelli superati a Candy Crush Saga.
Una guerra silenziosa, combattuta contro un nemico difficile, chè troppo spesso si traveste da amico. Aprendo le porte con la destra, chiudendo i recinti con la sinistra. Che nega, insieme alla libertà di movimento, una libertà forse ancora più importante, quella della partecipazione. “Una partita della Salernitana? Sì, ci posso andare, e senza pagare il biglietto. Ma è come se ti facessero entrare al ristorante senza permetterti di mangiare”. Dentro sì, ma distante dagli altri, dai “normali”. Insieme ai quali tifare, gioire, disperarsi. Invece li puoi solo guardare, nel tuo spazio isolato, più lontani dei calciatori in campo. Anche qui, leggi rispettate e gabbia chiusa. Sull’anima, che fa più male.
Guardi Giuseppe, il suo sguardo nonostante tutto libero, ascolti le sue parole nonostante tutto mai rancorose, e ti rendi conto che il tuo semplice mondo, che le strade in cui ti muovi, si trasformano in un pianeta ostile. Ogni giorno. Per i tuoi concittadini, per i tuoi fratelli. E capisci che l’intenzione con la quale hai iniziato questa chiacchierata, e che ti sembrava così lodevole e liberale, è tutta sbagliata. Chè la sfida non è proteggere questo mondo diverso. La sfida è difficile, ed inattesa: la sfida è renderlo normale. Niente di speciale, appunto.
Questo articolo è presente a pagina 10 della pubblicazione numero 20 di Informa – Ecologia del benessere. Scarica il PDF della pagina o sfogliala da qui: