Approfondimenti
Pensiero unico – manicheo
Pensare in termini di bianco/nero, buono/cattivo, è la cosa più facile e sbrigativa quando giudichiamo qualcosa o qualcuno. Ma la vita è molto più complicata e non la si può tagliare col coltello senza fare torto alla ragione. Semplificare aiuta solo una narrazione comoda, ma è del tutto fuorviante per comprendere le tante sfaccettature che la realtà ha. Lo abbiamo visto con la pandemia, e lo ritroviamo pari pari ora con la guerra Russia – Ucraina, dove lo schema mentale è lo stesso.
Ragionare in questo modo significa “non ragionare”. Si punta il faro solo su un angolo della stanza e si trascura tutto il resto. Spaccare il mondo in due (bianco/nero) con un furore ideologico e un radicalismo (solo il bianco è buono) polarizza le opinioni e impedisce un pensiero più complesso, magari anche dissonante. Si chiama “manicheismo”. Il dizionario Treccani definisce manicheo colui “che nel giudicare atteggiamenti, opinioni, situazioni ritiene di poter formulare giudizî secondo un’opposizione radicale di vero e falso, bene e male, senza offrire alternative né ammettere sfumature, e ritenendo di essere dalla parte del giusto e del vero”.
Ogni singolo individuo adotta una visione della vita che rispecchia la sua formazione, la sua storia, i suoi interessi, la sua impostazione mentale e psicologica. Ma quando questo approccio è dilagato in larghi strati di popolazione, la cosa deve destare allarme perché il bipolarismo e il radicalismo producono un altro fenomeno pericoloso che è il “pensiero unico”.
Come si forma questo pensiero bipolare – radicale – unico in una popolazione? Proviamo a capirlo.
Innanzitutto articolare un pensiero complesso è molto faticoso, richiede impegno: è necessario informarsi, fare collegamenti tra eventi, andare oltre la prima impressione, approfondire. Gli storici devono consultare molte fonti, quelle dei vincitori e quelle dei vinti, per farsi un’idea il più possibile vicina alla realtà.
E la comunicazione di massa e i mass media? Fino a qualche decennio fa la tv, il mezzo più popolare di informazione e intrattenimento, aveva un palinsesto forse ridotto negli orari, ma molto variegato: trasmissioni leggere (i varietà) ma anche informazione, cronaca, scienze, tecnologie, ecc. Ma i programmi più popolari sono sempre quelli di intrattenimento e alcuni decenni fa erano molto diversi da oggi, e perfino la pubblicità era più raffinata. I film, gli “sceneggiati” (fiction) si rifacevano ai grandi classici italiani e stranieri che portavano una qual formazione anche a chi non aveva un alto livello di scolarizzazione: I promessi Sposi, Odissea, Il Conte di Montecristo, I fratelli Karamazov, Madame Boravy, solo per dirne alcuni. Si consideri che negli anni ’50 lavoravano in RAI intellettuali come Eco, Vattimo, Colombo). Oggi l’intrattenimento è a dir poco “disimpegnato”: polizieschi, gialli, thriller, western, serie tv demenziali, per non parlate dei giochi a premi. Lo schema è più o meno quello delle favole: l’azione si svolge sempre tra “buoni e cattivi”, il buono trionfa, o se soccombe è un eroe. E le cose non cambiamo sulle piattaforme digitali, anzi.
E’ lecito chiedersi se questa tendenza alla banalizzazione, al rifiuto della complessità non ci venga anche da questa “formazione semplicistica”, forzata e monotona. Rilassati sul divano a guadare film, serie tv, giochi a premi e talk show, non siamo più capaci (quasi un plagio) di articolare un pensiero autonomo. E la pubblicità?
Forse anche da qui nasce anche la cancel culture, il politically correct, l’omologazione conformistica delle opinioni.
Chi si sottopone acriticamente a questo “trattamento” o non ha gli strumenti o non si pone il problema di comprendere cosa produce tale appiattimento. Ma chi induce, organizza, proporne e somministra tale banchetto è altrettanto inconsapevole e innocente? CUI PRODEST? A vantaggio di chi va tutto ciò?