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Rapporto medico- paziente: un dialogo difficile. Colpa anche del sistema?
Dopo una chiacchierata con un’amica veneta alle prese con vari problemi di salute, mi sono sentita rivolgere la stessa eterna domanda: «ma questi medici lo sanno che curano delle persone? Lo sanno che chi si rivolge a loro vuole risposte di salute, vuole guarire e soprattutto vuole essere ascoltato e che si comprenda il suo male e il suo malessere»? E poi mi ha rivolto quest’invito: «tu che scrivi anche di questi argomenti rendilo pubblico, solleva il problema».
Cerco così, adesso, di accogliere il suo invito, anche se lì per lì mi sono cadute le braccia… per vari motivi.
Innanzitutto perché questo argomento, insieme ad altri colleghi (pochi), lo trattiamo da decenni con risultati, purtroppo, inconsistenti. L’unico effetto è stato quello che si è compreso che con questo argomento si può fare, ipocritamente, bella figura in un convegno, in una trasmissione televisiva, in un dibattito. Insomma viene usato in tutti i contesti tranne in quello giusto: il setting dello studio medico o dell’ospedale.
Un altro motivo è che il malessere del malato davanti al medico è un malessere che il medico non può non percepire e di cui deve farsi carico. E per quei (sempre pochi) che praticano questa “umanizzazione dei rapporti” (una tautologia in verità: cosa sono il medico e il malato se non due esseri umani?) si rivela fonte di soddisfazione quando viene praticato; ma anche di amarezza perché appare chiaro che si è arrivati a un punto preoccupante di imbarbarimento di una delle professioni più nobili.
Lo scrive e lo descrive molto bene, e con tanto calore (quasi con malinconica tristezza) Francesco Eugenio Negro, medico omeopata, in un saggio “Perché io ero io, perché lui era lui” – Lettera ai medici che, curano una malattia, dicendo di curare il malato (vedi qui), la cui lettura è veramente illuminante.
Eppure a dispetto delle ipocrite chiacchiere in tv o nei convegni dove le affermazioni sulla “attenzione e la centralità del paziente” si sprecano , il sistema invece ha preso a girare intorno all’idea di “business-mercato” (vedi la famosa frase di Monti in tempi dei tagli: «la sanità è un asset produttivo»). Poi la crisi con i tagli al welfare e i piani di rientro hanno fatto il resto. Non una sciagura ma una manna per attuare una sfrontata liberalizzazione del sistema dove chi può compra e chi non può? si arrangi…
Da questo punto di vista la Campania negli ultimi decenni è stata uno straordinario laboratorio che ha attuato questo tipo di politica economico-sanitaria. Ed oggi se ne possono apprezzare i risultati: un sistema pubblico in ginocchio con risorse usate male anche grazie a un management nominato per lo più con meriti di “appartenenza partitica”; e sull’altro versante un sistema accreditato agguerrito che ne ha tratto vantaggio, sempre grazie a quello stesso management che nulla (o troppo poco) ha fatto per difendere il suo territorio pubblico. Sarà un monito o un modello anche per le altre Regioni?
Quello che è certo e che questi campioni del liberismo non vedono il tranello che è dentro questo sistema e che gioca a sfavore anche di chi può “comprare”: se non c’è un’etica (e chi più del pubblico può e deve averla l’etica!) che controlla quel “mercato” le frontiere che si aprono sono solo quelle del Far West, dove l’umano scompare del tutto, sciolto nell’ideologia acida della “merce che chiama merce”.
Temo, purtroppo, che dentro questo Far West ci siano già. O ci siamo molto, molto vicini.