Esperienze
Tutta la vita che ci finisce “addosso”
La mia prima formazione, psicosomatologica, mi insegnò -alla fine degli anni settanta- a leggere sul corpo i colpi ricevuti dalla vita (per esempio nella psoriasi ai gomiti), o i colpi dati (per esempio, in certe forme di vitiligine sulle nocche delle mani).
Indagavo sul corpo il nostro ‘mentale’, le malattie, l’inumano da stanare.
Sulla pelle che è il nostro ‘contenitore’ leggevo luoghi, tempi e modi di quello che arrivava dalla sfera emozionale e nervosa, quei conflitti più o meno profondi che non sapevano dove altro andare.
Sulla pelle che è il nostro ‘confine doganale’ leggevo quel traffico fuori controllo di cose che volevano e non volevano uscire e di cose che volevano e non volevano entrare.
Sulla pelle che è la nostra ‘parte manifesta’ leggevo quei messaggi inammissibili, quelle cose inconfessabili che si volevano dire al mondo senza la responsabilità di farlo.
Leggevo i corpi, le cose yin che andavano verso fuori in certe somatizzazioni ‘espressive’ e le cose yang che andavano verso dentro in certe somatizzazioni ‘impressive’, nelle contratte costipazioni addominali. E le cose poi che non sapevano decidersi tra fuori e dentro, e si ‘barcamenavano’ a livello di apparato respiratorio (certe asme in certi passaggi di certi bambini di tutte le età).
Leggevo a volte le coerenze tra tipo di emozione e tipo di organo che se ne faceva carico, certe emozioni per esempio che non potevano che finire sul cuore.
E leggevo altre volte, invece, un ‘organo debole’ e negletto che si faceva carico sempre di tutto lui.
Per molti anni pensavo di dovere leggere e stanare sul corpo l’inumano, i mali, i conflitti, il dolore.
Ho capito poi, invecchiando, che sul corpo invece si possa leggere semplicemente tutto. Che ci finisca sopra ogni aspetto della nostra vita.
E credo che, in qualche misura, è la vita che ci finisce sul corpo, anche nel caso delle malattie massimamente fisiche ed organicistiche.
Qualche anno fa ebbi gravi problemi alla schiena che mi inabilitarono per circa tre mesi.
Colsi nitidamente che quella malattia interrogava la mia vita e la sua ‘pesantezza’ molto più di quanto interrogasse il mio corpo e la sua ‘fragilità’.
Mi ero ‘procurato’ quella malattia con decenni di posture sbagliate, legate al mio lavoro ed alla sua ‘quantità’, la quantità di ore che il mio lavoro mi aveva ‘tenuto in ostaggio’ di posture improprie.
Ma la quantità di lavoro, i piani organizzativi delle mie giornate dipendono dalle priorità che assegno, dalle mie personali gerarchie. Che dipendono dalla mia logica di personalità, il mio carattere, i miei valori ecc., tutte cose legate alla mia vita, alla mia formazione, ai miei alfabeti ancestrali.
Di cosa stiamo parlando dunque? È di lombo – sciatalgia che stiamo parlando?
… continua a leggere l’articolo a pagina 7 della nostra rivista
Catello Parmentola – Psicoterapeuta